MITICI ANNI ’60

MITICI ANNI ’60

Il ricordo degli americani era ormai sfumato. Degli americani che regalavano sigarette e spezzavano cuori di ragazze dall’alto delle loro divise. L’Italia stava inaugurando un quasi decennio di vero mito. Tutto bello. Tutto colorato. Tutto si poteva fare. Specialmente sognare. La musica degli anni Sessanta, che ad ogni piè sospinto ci ricorda essere immortale, è probabilmente qualcosa di più. Ad ogni 45 giri corrisponde un ricordo, un pensiero positivo e di speranza, di ottimismo. Un secolo dopo l’unità del paese, due conflitti mondiali e, per molti, la fame, l’Italia inserisce nei mangiadischi tante canzoni e così, pian piano, diventa meno economicamente arretrata, si industrializza, parla meglio l’italiano nonostante le inflessioni delle mille terre e dei borghi.

E’ boom. Economico, certo, ma ancora di più boom del pensare positivo, di una strisciante certezza che tutto sarà così per sempre e che, insomma, diverremo tutti baciati dal benessere. C’è un disco per la mitica 500, un altro per la Vespa, un altro ancora per la Lambretta. E mentre gli italiani si motirizzano, i juke-box sfornano hit su scala industriale.

Si svuotano le campagne e si riempiono le fabbriche, specialmente il nord diventa un crogiuolo di ciminiere, di sirene che suonano precise alle 8, a mezzogiorno, all’una e mezza di pomeriggio e alle 17.30. Quelli che prima venivano chiamati contadini, ora cercano di apparire emanicpati cittadini di Torino o di Milano. Ma l’emigrante non può dimenticare la terra e, se lascia gli aranceti della Calabria per costruire automobili o navi, avrà sempre nel cuore le proprie radici. L’emigrazione dalle terre abbandonate del sud verso i capoluoghi industriali del settentrione ingrosserà via via la fila dei proletari. Quanto era di moda questa parola! Gli anni Sessanta, con le solite canzoni da spiaggia o da mattonella, cambiano aspetto nell’arco di pochi anni e la classe operaia, altra definizione abusata dell’epoca, detta temi importanti nell’agenda politica del paese. Iniziano le lotte sindacali, i ragazzi delle scuole scendono in piazza. E’ già il 1968. L’Italia è cambiata e gli anni Sessanta sono finiti. Ma non il loro mito che, ancor oggi, è vivo.

Dicevamo delle canzoni, delle canzoni che Radio Birikina tiene vive. Ogni hit che passa è un flash su un momento preciso: ascoltando Bruno Lauzi si intrasente il mare di Zena e il popolo di Camalli che scarica le navi. Alle prime note de “Il peperone” di Edoardo Vianello si pensa alle grandi fabbriche che chiudono per ferie e riversano milioni di persone sulle prime autostrade e sulle spiagge romagnole. Ed ecco che torna qui in mente l’erede di Secondo Casadei. Perché anche il liscio, il nuovo liscio delle balere esplode proprio in questi anni. I signori tedeschi riempiono le case italiane di televisori e lavatrici. Sembra quasi che le famiglie passino il tempo divertendosi. Quasi tutti compravano casa, i ragazzi andavano a studiare, c’era per tutti il vestito buono nell’armadio. E se questo modus vivendi non è un mito, allora cos’è?

Come detto, probabilmente l’arma del cambiamento, per i giovani ma di riflesso per tutti, è stata proprio la musica. Via gli schemi classici della canzone italiana, via le lacrime di Beniamino Gigli e di Nilla Pizzi. Tal Domenico Modugno sconvolge gli orecchi e la gente non crede ai propri occhi quando, da Sanremo, si libera e grida “Volare”. Mai sentito un modo di cantare così, prima. Intanto, sempre con maggiore forza, giungono le influenze dalla Gran Bretagna: è il beat, fatto anche di capelli lunghi e connessi abiti che, se li indossi oggi, o sono Desigual o sono regalo della Caritas. Sono i momenti top dei Beatles e dei Rolling Stones. E’ il pane quotidiano di Radio Birikina. Ma non si pensi che le canzoni dell’epoca fossero solo quelle “leggere”. Arrivano Guccini, Bob Dylan e i maltollerati cantautori americani, anzi, chiamiamoli pure comunisti che facciamo prima. E’ l’altro aspetto musicale degli anni Sessanta, il contraltare del twist e del beat, e i giovani iniziano ad ascoltare per sentirsi “impegnati”. Sono messaggi canori che si insinuano, dapprima, silenziosamente nelle coscienze. Messaggi che contribuiranno all’emersione delle prime proteste contro la guerra nel Vietnam.

Voglia di mutamento, di libertà, di eguaglianza contro i totalitarismi. E’ proprio la guerra del Vietnam a diventare il simbolo del movimento giovanile studentesco. Adesso si ascoltano neo Beatles e Rolling Stones, perché tanti ragazzi hanno sostituito la chitarra con cui facevano innamorare le donne con un altro strumento che emette sempre la stessa nota. Una della canzoni preferite di Radio Birikina. E non importa se a cantarla sia stato, in Italia, prima Mario Lusini o prima Gianni Morandi. Gli anni Sessanta, quelli spensierati, erano finiti.

Rimane però una domanda a cui nessuna canzone, né ora né allora, ha dato risposta. Perché il ’68 fu così breve e passò senza lasciare praticamente nessuna traccia?

The answer, my friend, is blowing in the wind.