I BEATLES PUBBLICANO IL LORO PRIMO SINGOLO

on 31 Ottobre 2014 in Sixties Cults

“Love Me Do” è un brano di Paul McCartney ed è incluso nell’album di debutto dei Beatles “Please Please me” del 1964.  E’ ricordato soprattutto per essere il loro primo singolo, pubblicato in Inghilterra il 5 ottobre del 1963. Il singolo raggiunse la 17° posizione nelle classifiche inglesi. Negli Stati Uniti il singolo, uscito nell’aprile del 1964 si è piazzato in testa alla classifica Billboard Hot 100.  “Love Me Do” comincia con l’armonica a bocca blues suonata da Lennon, a cui segue la strofa cantata da McCartney e Lennon insieme. La struttura del brano si è ispirata all’armonica dell’artista americano di rhythm and blues di Bruce Channel nella sua canzone “Hey! Baby”.

La prima versione del 45 giri è comunque quella con Ringo Starr alla batteria, il brano è stato incluso, anni dopo, nella versione americana di ‘Rarities Past Masters. Volume Uno’. La versione con Andy White è invece presente nel primo album inglese dei Beatles, “Please Please Me” nell’album “Beatles’ Hits”e in tutti gli album seguenti in cui è presente la canzone.

 

Il 4 settembre 1962 i Beatles si recarono agli Abbey Road Studios di Londra dove cominciarono a provare “Please Please Me”, “Love Me Do” e “How Do You Do It?”, un brano composto da Mitch Murray,che secondo il produttore George Martin, sarebbe dovuto essere il loro primo singolo. Martin aveva infatti deciso di scritturare i Beatles non tanto per le loro composizioni quanto per la loro personalità e le loro qualità individuali. Durante una sessione serale i Beatles registrarono quindi “How do you do it” e “Love Me Do”.

Dopo aver ascoltato i pezzi, George Martin prese una decisione storica e scelse “Love Me Do” come primo singolo dei Beatles. “How Do You Do It?” era materiale di prima scelta, come dimostrarono ‘Gerry and The Peacemakers’  che lo fecero arrivare al numero uno delle classifiche inglesi nel 1963, e aveva un sound più adatto per quel periodo. Ciò che colpì Martin e che lo convinse a puntare su “Love Me Do” fu soprattutto il suono lamentoso dell’armonica a bocca di Lennon, che gli ricordava i pezzi dei bluesmen Sonny Terry e Brownie McGhee.

Dal momento che il tamburello non era incluso nella registrazione del 4 settembre, è comunque facile distinguere tra le due versioni – quella con Ringo e quella con White.Una versione blues più lenta di ‘Love Me Do’, è presente in alcuni bootleg ,è stata suonata dai Beatles nel 1969 , durante la session di “Get Back” per l’album “Let it be”.

Questo è il testo di “Love me do” :

Love, love me do
You know I love you
I’ll always be true
So please, love me do
Whoa, love me do

Love, love me do
You know I love you
I’ll always be true
So please, love me do
Whoa, love me do

Someone to love
Somebody new
Someone to love
Someone like you

Love, love me do
You know I love you
I’ll always be true
So please, love me do
Whoa, love me do

Love, love me do
You know I love you
I’ll always be true
So please, love me do
Whoa, love me do
Yeah, love me do
Whoa oh, love me do
Whoa yeah (fade out)

 

Il boom economico del 1960

on 27 Ottobre 2014 in Sixties Cults

Il boom economico è un periodo della storia d’Italia di forte crescita economica e sviluppo tecnologico, compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del XX secolo. Le nuove logiche geopolitiche della Guerra Fredda contribuirono a far sì che l’Italia  potesse godere, a partire dal 1947, di consistenti aiuti da parte del Piano Marshall, valutabili in circa 1,2 miliardi di dollari dell’epoca.

Si erano poste le basi d’una crescita economica spettacolare, destinata a durare sino alla crisi petrolifera del 1973 e a trasformare il Belpaese, da Paese sottosviluppato ad una delle nazioni più sviluppate dell’intero pianeta. Ad esempio, nei tre anni che intercorsero tra il 1959 ed il 1962, i tassi di incremento del reddito raggiunsero valori da primato: il 6,4%, il 5,8%, il 6,8% e il 6,1%.  Valori tali da ricevere il plauso dello stesso presidente statunitense John F. Kennedy durante una celebre cena col presidente Antonio Segni.

Questa grande espansione economica fu determinata in primo luogo dallo sfruttamento delle opportunità che venivano dalla favorevole congiuntura internazionale. Più che la lungimiranza degli imprenditori italiani ebbero effetto l’incremento vertiginoso del commercio internazionale e il conseguente scambio di manufatti. Il maggiore impulso a questa espansione arrivò proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di sviluppo tecnologico tale da consentire loro di reggere l’ingresso dell’Italia nel Mercato Comune.

Il sistema economico marciava a pieno regime, il reddito nazionale stava crescendo e la gente era rinfrancata dall’incremento dell’occupazione e dei consumi. D’altra parte, all’inizio del 1960 l’Italia si era fregiata di un importante riconoscimento in campo finanziario. Dopo che un giornale inglese aveva definito col termine “miracolo economico” lo sviluppo in atto, una giuria internazionale, interpellata dal “Finacial Times”, aveva  attribuito alla lira l”Oscar” della moneta più salda fra quelle del mondo occidentale.

La prevalente concentrazione industriale e delle condizioni di maggiore produttività agricola e terziaria nel Nord del paese continuava ad alimentare situazioni di forte divario territoriale, cariche di implicazioni sociali ed economiche. Un’importante conseguenza di questo processo fu l’imponente movimento migratorio avutosi negli anni Sessanta e negli anni Settanta. È stato calcolato che nel periodo tra il 1955 e il 1971, quasi 9.150.000 persone siano state coinvolte in migrazioni interregionali; nel quadriennio 1960-1963, il flusso migratorio dal Sud al Nord raggiunse il totale di 800.000 persone all’anno.

Gli anni Sessanta furono teatro di un rimescolamento formidabile della popolazione. La grande espansione fu anche teatro di straordinarie trasformazioni che riguardarono lo stile di vita, il linguaggio e i costumi degli italiani, accompagnati da un deciso aumento del tenore di vita. Nelle case delle famiglie di quanti potevano contare su uno stipendio cominciavano a far ingresso numerosi beni di consumo, come le prime lavatrici e i frigoriferi. Anche le automobili cominciavano a diffondersi sulle strade italiane con le FIAT 500 e le FIAT 600.

Lo sviluppo di quegli anni era accompagnato da un miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione sostenuto dalla crescita dei consumi privati che, tra il 1950 e il 1962, avevano registrato un tasso di sviluppo “di entità mai sperimentata in precedenza”, pari al 4,9% annuo. L’Italia si aprì così ai mercati internazionali.

 

2001 Odissea nello spazio

on 17 Ottobre 2014 in Sixties Cults

2001 : Odissea nello spazio’ è un film di fantascienza di Stanley Kubrick presentato il 6 aprile del 1968, basato su un soggetto di Arthur Clarke.  Kubrick aveva contattato lo scrittore perché aveva bisogno di un buon soggetto per un film di genere. Il lavoro è rimasto uno dei filmati più celebri grazie alla sceneggiatura, alla recitazione e alla tecnica di ripresa. Riprende con fedeltà l’ambiente spaziale: l’astronave ha una gravità a causa della rotazione, i movimenti in assenza di gravità sono lenti come dovrebbero essere e la scena in cui un astronauta rientra nell’astronave è stata approvata dagli esperti come verosimile.

Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film” ha dichiarato Kubrick “ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.” A questo proposito è di grandissimo effetto l’unione tra le due scene iniziali: l’utilizzo di un osso da parte di un ominide e le astronavi orbitanti attorno alla Terra. In questo modo il regista ha compiuto un salto logico di millenni con un’operazione che trova pochi riscontri nella storia del cinema.

La prima parte del film rappresenta degli uomini primitivi che toccano un monolito nero, imparando ad usare gli strumenti per sopravvivere. Nella seconda parte il film racconta il 1999 dove alcuni ricercatori sono chiamati in missione sulla luna. La terza parte si svolge nel 2001 dove un gruppo di scienziati sono a bordo della ‘Discovery One’ diretti verso Giove. Qui entra in scena il computer HAL 9000. Si scoprirà che al computer è stato chiesto di nascondere il reale obiettivo della missione. Quest’ordine creerà un conflitto interno ad HAL che inizierà a manifestare nei pressi di Giove. Il computer cercherà di ostacolare gli esseri umani, giungendo anche a ucciderli. Uno di loro, però, David Bowman, riesce a prendere il controllo della nave, disabilitando le funzioni superiori di HAL. Il computer sembra regredire allo stato infantile intonando un sinistro ‘Giro giro tondo’. Nell’ultima parte lo scienziato prova ad avvicinarsi a Giove con una capsula. E qui viene investito da una scia luminosa e inquietante, che lo trascina ad una velocità imponderabile e lo porta in una stanza chiusa. L’uomo riesce a vedere se stesso nelle varie fasi della propria vita fino alla morte e alla rinascita in un feto cosmico, il “bambino delle stelle”. Si può ipotizzare che l’uomo in uno spazio-tempo ignoto riesca ad evolversi in un essere estremamente evoluto.  

Uno dei temi che colpirono maggiormente il pubblico e la critica fu il supercomputer HAL 9000 con la sua voce suadente e la sua successiva ribellione.  L’unica previsione corretta, almeno finora, è che i computer sono capaci di vincere gli uomini nel gioco degli scacchi. Tuttavia, se si intende la pellicola come il pronostico della supremazia della tecnologia sulla società, allora il film è estremamente attuale.

La musica che accompagna la metamorfosi dell’uomo è l’inizio di “Così parlò Zarathustra” di Richard Strauss. Il poema sinfonico sottolinea tutti i punti di svolta della storia. La scelta di questo brano non è casuale in quanto la sinfonia si ispira all’omonima opera di Friedrich Nietzsche, nella quale si narra la discesa del profeta tra gli uomini per insegnare loro a diventare liberi. E’ probabile che gli autori abbiano voluto evocare un’analogia tra Zarathustra e il monolito nero.

Pop Art

on 9 Ottobre 2014 in Sixties Cults

La Pop Art è una corrente artistica che prende il nome dall’inglese ‘popular art’ ovvero ‘arte popolare’. Il movimento artistico presentò una sfida alle tradizioni d’arte includendo nel proprio lavoro l’immaginario della cultura massificata come la pubblicità, le notizie e gli oggetti di uso quotidiano.

Le origini di questa arte devono essere cercate nella crisi attraversata dall’arte non figurativa; una crisi che portò la giovane generazione di artisti alla ricerca di una nuova espressione estetica. I maestri attingevano la propria ispirazione dalle immagini del cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, dagli oggetti commerciali di una società consumistica, che produceva i propri idoli creati dai mass media.

L’appellativo ‘popolare’ deve essere inteso come ‘arte di massa’ che significa opere prodotte in serie. Dal momento che la massa non ha volto, l’arte che la esprime deve essere il più possibile anonima, perchè, secondo gli artisti pop, solo in questo modo, potrà essere compresa e accettata dalla gente. In un mondo dominato dal consumo, la Pop Art guarda al complesso degli stimoli visivi comuni, siano essi oggetti come una scatola di detersivo o l’immagine stereotipata di un divo del cinema.

I maggiori rappresentanti del genere furono Roy Lichtenstein, che si richiamò al mondo dei fumetti; George Segal, che costruì figure in gesso colte nei gesti del quotidiano; Claes Oldenburg, che riprodusse giganteschi oggetti di consumo; James Rosenquist con i suoi grandi cartelloni pubblicitari e Andy Warhol, che trasformò l’opera d’arte da oggetto unico a oggetto seriale.

La mercificazione dell’uomo moderno e il consumismo eletto a sistema di vita furono i fenomeni principali dai quali gli artisti presero ispirazione. La Pop Art usò lo stesso linguaggio della pubblicità cercando di essere omogenea alla società dei consumi che l’aveva prodotta.

L’artista pop non trova più spazio per l’esperienza soggettiva e questo lo configura come puro manipolatore di immagini, di oggetti e di simboli già fabbricati a scopo industriale, pubblicitario o economico. Nella mani di un artista pop le immagini comuni si trasformano in immagini ‘artistiche’ dell’arte colta che racconta il periodo storico nelle quali sono nate.

La cultura hippie

on 3 Ottobre 2014 in Sixties Cults

Il movimento culturale hippie nacque negli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta. Le persone che aderirono alla nuova ideologia crearono una controcultura con proprie comunità che ascoltavano rock psichedelico, abbracciavano la rivoluzione sessuale e l’uso di allucinogeni per esplorare e allargare lo stato di coscienza.

Gli hippy vestivano abiti multicolori con decorazioni ricche di simboli di pace, amore e libertà. Le loro idee in merito sono probabilmente riassumibili negli slogan “Mettete dei fiori nei vostri cannoni” e “Fate l’amore, non la guerra”, che furono cantati e gridati in particolare nel periodo della guerra del Vietnam.

Nel 1967 lo ‘Human Be-In’, un raduno tenutosi a San Francisco, rese popolare la cultura hippie preparando la ‘Summer of Love’ del 1967 e il leggendario ‘Festival di Woodstock’ del 1969. La rivoluzione pacifica si espanse in tutto il mondo, ed ogni paese creò la propria versione del movimento controculturale che ebbe un grande impatto sulla società, influenzando la musica popolare, la televisione, il cinema, la letteratura e l’arte in generale.

Gli hippy respingevano le istituzioni, criticavano i valori della classe media, erano contrari alle armi nucleari e abbracciavano molti aspetti della filosofia orientale, spesso erano vegetariani e ambientalisti. Per diffondere la propria cultura utilizzavano il teatro di strada, la musica popolare e le sonorità psichedeliche.

Il 14 gennaio 1967 l’immenso raduno all’aperto di San Francisco richiamò più di 20.000 persone al Golden Park. La versione della canzone ‘San Francisco’ di Scott McKenzie divenne un grande successo : “If you’re going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair…” – “Se stai andando a San Francisco, devi essere sicuro di mettere dei fiori nel capelli…”- e contribuì a far guadagnare loro il soprannome di ‘figli dei fiori’.

Nell’agosto del 1969, a Bethel, New York ebbe luogo il mitico Festival di Woodstock. Si recarono oltre 500.000 persone per ascoltare i musicisti dell’epoca, fra i quali : Richie Havens, Joan Baez, Janis Joplin, The Grateful Dead, Crosby, Stills Nash & Young, Carlos Santana, The Who, Jefferson Airplane e Jimi Hendrix. Gli ideali hippy di amore e fratellanza sembrarono così aver conquistato un’espressione concreta.

Il Videoclip

on 13 Agosto 2014 in Sixties Cults

Cari amici di Birikina, sempre di più siamo abituati all’associazione immagine-musica: il cinema in primis è stato fondamentale affinchè tutto questo avvenisse ma, vi siete mai chiesti quando e come nasce il videoclip?Oggi vi proponiamo un breve escursus nel mondo della “musica visiva”.

Ebbene, parlando di filmati musicali non possiamo non far riferimento alla storia del cinema: esso nasce ad opera dei fratelli Lumiére nel 1895 e, come scrive il regista russo Sergej M. Ejzenštejn:”Il cinema muto non è mai stato muto”:fin dagli esordi le scene o erano accompagnate dai commenti e dalle chiacchiere degli spettatori, oppure da esecuzioni di musicisti dal vivo. “Il cantante di jazz” è il titolo del primo film sonoro risalente al 1927, una rivoluzionaria scoperta che viene sfruttata dai cineastiche ben presto producono i primi “talkies”, ovvero cortometraggi musicali.

Possiamo nominare Walt Disney come inventore di quella che è l’idea stessa di videoclip poichè, nel 1940 con il suo “Fantasia”, propose brani di repertorio classico vivacizzati da storie animate dall’andamento ritmico. D’altra parte dobbiamo considerare anche i musicals come opere che hanno influenzato la struttura del futuro videoclip: ad esempio, “Thriller” di Michael Jackson prende spunto da numeri di danza presenti nella scena iniziale di “West Side Story”.
Secondo recenti studi, il termine “video musicale” viene coniato da Richardson nel 1959, a seguito del più vecchio videoclip musicale :” Dàme si do bytu”.
In Italia, nel 1959, Pietro Garinelli realizza il primo Cinebox ossia un juke box con lo schermo ( una moneta, la scelta di una canzone e la pellicola corrispondente). Sempre nel nostro Paese non dobbiamo scordare i musicarelli, film interpretati da cantanti come Gianni Morandi, Nada, Bobby Solo, Rita Pavone ed altri.
Quando la televisione inizia ad avere più seguito, il regista Tullio Piacentini produce un programma volto al lancio del videoclip: “Passeggiando per Subiaco”. Potremo proprio vedere nella figura di Tullio Piacentini l’inventore del linguaggio artistico di questo nuovo genere, insomma, l’inventore del videoclip.

Nel decennio 1960-1970 i Beatles, per soddisfare le richieste dei fans e per promuovere le loro canzoni, erano soliti realizzare dei brevi filmati che venivano trasmessi nelle TV. Sempre della band è il film “A Hard Day’s Night” (1964), che si presenta come un documentario fittizio in cui si alternano dialoghi ed interviste a sequenze musicali. Queste strategie promozionali vennero adottate anche da Bob Dylan, David Bowie e dai Rolling Stones.
Di sicuro le trasmissioni come “Top Of the Pops” (1970) si sono rivelate fondamentali nella diffusione della musica popolare filmata. Nonostante le esperienze appena citate, convenzionalmente ed erroneamente si dice sia stato il brano del 1975 interpretato dai “Queen”, “Bohemian Rhapsody”, il primo videoclip della storia.

Il 1 agosto 1981 nasce MTV che apre il suo palinsesto con “Video Killed the Radio Star” dei Buggles; da allora i filmati musicali si sono evoluti sia dal punto di vista artistico sia attraverso le nuove piattaforme mediatiche (per esempio internet).

La minigonna

on 7 Agosto 2014 in Sixties Cults

 

Donne di Birikina, immagino che ciascuna di voi abbia avuto nell’armadio almeno una minigonna!
Vi proponiamo un po’ la storia di questo capo d’abbigliamento che, ancor oggi è amatissimo dalle teenagers.

A partire dal XIX secolo, sulla scia dei movimenti femministi,  la stilista Mary Quant apre la sua “Botique Bazar” nella Kings Road di Londra. Le sua creazioni ben presto divennero espressione del mondo giovanile.
Così come a Parigi, in quegli stessi anni, la stilista Coco Chanel era impegnata a mutare l’aspetto delle donne (l’abbandono del corsetto, l’orlo della gonna posto sopra il ginocchio), così la Quant si prefiggeva di creare un indumento che potesse essere utilizzato da tutte le donne; è così che nel 1963 nasce la minigonna.

La stilista, parlando della diffusione e della nascita di questo vestiario, dichiarerà: “Sono state le ragazze della King’s Road ad inventare la mini. Stavo creando abiti semplici e giovanili, con cui era possibile muoversi, con cui si poteva correre e saltare e li avrei realizzati della lunghezza voluta dalla clientela. Io li indossavo molto corti e la clientela diceva “Più corti, più corti” “.

Se le prime mini, per essere definite tali, dovevano essere lunghe fino a due pollici sopra il ginocchio, nel giro di qualche anno tale convenzione mutò. Alla diffusione di questa non mancarono le contestazioni da parte della società moralista, della Chiesa e di alcuni Paesi come Cina ed Africa che ne osteggiarono la diffusione. Dal 1963 la minigonna non è mai tramontata ad eccezione degli anni ’70: in questo decennio la gonna si accorcia ulteriormente portando con sè l’idea della donna-oggetto. Per boicottare tale immagine, la mini viene accantonata anche se al suo posto, prendono piede gli shorts.
Negli anni ’80 gli stilisti ripropongono il capo, cambiandone la forma e i materiali impiegati.
Nel 2013 la minigonna ha compiuto 50 anni; anche se ancor oggi non viene accettata da tutte le culture, rimane uno degli indumenti più amati e rivisitati nella storia della moda.

Barbie: sogno di generazioni

on 31 Luglio 2014 in Sixties Cults

Carissimi Birikini, oggi vorremmo parlare con voi della bambola più celebre di tutti i tempi: la Barbie. Anche voi ci giocavate? Pensate che io tutt’ora ne possiedo 20! Vi siete mai chiesti come nasce questo gioco per bambini? Chi ha dato origine alla “Barbie-mania”?

Tutto ha inizio quando la coppia di sposi Ruth ed Elliot Handler nel 1945, creano il marchio “Mattel”. La ditta si occupa di produrre manufatti in legno e mobili per case di bambole.
La vera mente è Ruth che per soddisfare la propria creatività, progetta una bambola dalle fattezze umane, che segue il gusto estetico della società: gambe lunghe, vita stretta e tratti del volto precisi.
L’idea innovativa rimane nella carta fino a quando, nel 1956 durante un viaggio in Svizzera, la donna viene attratta da Lilli: una bambola dai tratti simili a Brigitte Bardot, esposta in vetrina. E’ così che la coppia, ritornata in America dà vita a Barbara Millicent Roberts (nome completo della Barbie, suggerito da quello della figlia degli Handler, Barbara).
La prima Barbie debutta il 9 marzo 1959 a New York, in occasione della fiera del giocattolo.
Il successo è immediato: in quello stesso anno vengono vendute più di 350 mila Barbie al prezzo di 3 dollari ciascuna.
Nel 1961 compare il fidanzato, Ken (nome ispirato a Kenneth, il figlio dei due produttori).
Correva l’anno 1964 quando la bambola giunge in Italia riscuotendo i consensi di tutte le bambine.
Nello stesso anno viene modificata la fisionomia del giocattolo: i capelli si allungano, gli occhi vengono arricchiti con ciglia finte e aumentano gli accessori legati al mondo Barbie.

Il 1968 Ruth e Elliot incantano il mondo creando la prima bambola parlante; e da qui la storia della Barbie non ha subito arresti: il fenomeno ha coinvolto anche famosi stilisti come Moschino, Armani, Givenchy, Dior, Versace, che ogni anno realizzano capi destinati alla bambola più popolare al mondo.

Vespa: le due ruote che conquistano l’Italia

on 30 Luglio 2014 in Sixties Cults

Cari Birikini, anche voi giravate in Vespa?
Oggi parliamo proprio di questo rivoluzionario motociclo; citando le parole del famoso regista italiano Dino Risi:”  Dopo la guerra si andava a piedi; la Vespa è stata il primo mezzo di locomozione delle masse, costava poco e quindi era molto diffusa”.

Come spiegato nella frase sopra riportata, dopo il 1945 l’Italia stava affrontando il periodo di crisi post bellica, mancavano vie di comunicazioni efficienti e le industrie andavano ricostruite; le difficoltà alle quali gli imprenditori dovevano far fronte erano molte, ci voleva spirito di innovazione, quello che induce il produttore Enrico Piaggio insieme al progettista Corradino D’Ascanio, a ideare un nuovo veicolo a due ruote.
I due conoscevano molto bene la motocicletta e volevano che il loro nuovo progetto colmasse i difetti della prima: ecco la possibilità di poter dotare il nuovo mezzo di ruota di scorta, di una seduta ancor più comoda e di facilità da parte del conducente, di effettuare le manovre.

E’ così che nel 1946 nasce la Vespa presentata per la prima volta nelle concessionarie “Lancia”, con cilindrata di 98 cc e che arriva ad una velocità massima di 60 km/h. Il costo era stato fissato a 68 000 lire, proprio per agevolare le famiglie italiane; questo portò ben presto il nostro due ruote al successo, tanto che nel 1957 ben 3 milioni di italiani ne erano in possesso.

L’origine del nome è ancora incerto, probabilmente la denominazione è nata dall’esclamazione di Piaggio che, sentendo il particolare ronzio, disse:”Sembra una vespa!”.

Il veicolo conquista sia i cittadini italiani che il cinema infatti, nel 1953 farà la sua comparsa nel film di Roman Holidays “Vacanze romane” con Audrey Hepburn e Gregory Peck. A proposito di questo, Dino Risi disse: “Alla Vespa non si poteva non dar spazio anche nel cinema.Quando è uscita l’automobile ha avuto un ruolo nei film, così è stato per l’aereo e così sarà per ogni mezzo di comunicazione che sarà inventato in futuro”

La Vespa non ha solo rivoluzionato la percorrenza nelle strade ma si presenta come un vero fenomeno di cambiamento socio-culturale perchè, solo “Chi Vespa mangia le mele!”.

E proprio per festeggiare i 25 anni di Radio Birikina, abbiamo organizzato un raduno di Vespa aprendo le porte degli studi radiofonici per brindare insieme a questo lungo traguardo.

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Il mito di Carosello

on 24 Luglio 2014 in Sixties Cults

Carissimi Birikini, quanti di voi ricordano il programma televisivo “Carosello”? Valeva anche per voi la regola:” Dopo Carosello tutti a letto!”?

La trasmissione televisiva viene mandata in onda per la prima volta il 3 febbraio del 1957 alle ore 20.50 sul Programma Nazionale. “Carosello” consisteva in una serie di sketch comici o brevi filmati seguiti dal messaggio pubblicitario. Il primo episodio trasmesso fu :” Le avventure del Signor Veneranda”, diretto da Eros Macchi. Alle 20.50 migliaia di persone, sia adulti adulti che piccini, attendevano l’inizio della sigla (ideata da Luciano Emmer e Cesare Taurelli). Ogni episodio, secondo le regole palinsestuali, non poteva durare più di 2 minuti e 15 secondi (periodo di tempo che successivamente verrà ridotto).
La trasmissione non era studiata solo per favorire le vendite di alcuni prodotti, ma si presentava come una vetrina per numerosi attori e registi, all’epoca conosciuti solo in teatro; per fare qualche nome: Ugo Tognazzi, Vittorio Gasman, Gianni Boncompagni, Pippo Franco.
Le critiche non mancarono: la Spira, ente di gestione della pubblicità RAI, definì il programma poco incisivo dal punto di vista commerciale poichè l’attenzione dello spettatore era focalizzata nelle storie presentate; altri lo definirono “diseducativo” e troppo dispendioso. A causa degli elevati costi di produzione e delle incessanti critiche, il Capodanno del 1977, “Carosello” chiuse le tende del sipario.

Nel 2013 la RAI decise di riproporre, in via sperimentale, il format: la vecchia sigla venne rivisitata e rispetto ai 10 minuti dell’originale “Carosello”, la durata complessiva imposta fu di 210 secondi.

Certo è, che alcuni motivetti come: “Cimabue, Cimabue, fai una cosa ne sbagli due!” oppure “Gigante pensaci tu…Ci penso io!” o ancora “Brava, brava Mariarosa ogni cosa sai far tu, qui la vita è sempre rosa solo quando ci sei tu!” rimarranno sempre nella testa di chi ha vissuto quei mitici anni ’60 e ’70.